Se tornassi, rifarei tutto.

Sì, quest’uomo rifarebbe tutto, “senza rimpianto alcuno”. Scalerebbe, ancora un volta, il Monte Bianco, per poi riscendere a raccontare, in veste di primo cronista e all’Italia intera la guerra del Golfo. Il suo olfatto percepiva inconfondibilmente l’informazione come l’odore della carta stampata, prima ancora di andare in onda, lui che di dirette televisive ne ha condotte a volontà.

Fino a qualche momento prima, ero indecisa su cosa portare a casa del giornalista italiano che ha vinto il Premio Saint-Vincent. Andarci a mani vuote pareva scortese, però una volta seduti nel suo salotto in stile barocco e a colpo d’occhio ben ordinato, mi sono resa conto che oltre a una penna e un foglio in più non occorreva altro. Ottantatrè anni (e mezzo) ripercorsi in un paio d’ore assieme a colui che ha fondato l’informazione: Emilio Fede. Direttore, con lei sarebbe riduttivo parlare soltanto di ciò che tutti conoscono, quindi le chiedo… a quanti anni ha cominciato? “Siamo nel ’46 e avevo solo 14 anni, quando nella mia terra, la Sicilia, ci fu uno dei grandi terremoti dell’Etnea. Spinto da una curiosità infusa, mi recai a Bronte per riportare la tragedia naturale. Lì incontrai una troupè cinematografica che svolse il primo servizio a colori”. L’allora bambino, Emilio Fede, sotto suo espresso interesse, ebbe l’opportunità di “spingere il mulo” giacchè un operatore della troupè era poliomelitico. “In seguito, questa esperienza, si rivelò molto similare nella mia carriera”. A quel punto Fede si precipitò a contattare il Corriere, fingendo di essere un giornalista, e propose la sua cronaca in diretta dall’Etnea. Da quel primo contatto ne seguirono altrettanti e molti ancora, tanto da vederlo sul pezzo di testate di prestigio, tra le quali la Gazzetta del Popolo a Torino che lo inquadrerà come “primo inviato speciale”. La sua grinta e passione lo avevano portato a “segnalarmi alla Rai per il David di Donatello a Taormina e così riuscii a realizzare un servizio, rimpiazzando il corrispondente indisposto”. Il primo incarico da direttore, arrivò nel 1976 e per cinque anni rimase alla conduzione del TG1, consacrandosi ufficialmente come “il primo della conduzione a colori”. Un salto a quel passato da ragazzotto sull’Etnea che assistette curioso alla prima ripresa a colori. Dieci più tardi, Fede fonda il TGA, per poi cominciare quella che sarà la sua carriera straordinaria in Finivest. Un direttore che raccomandava ai suoi inviati di “portare con sè un cestino per buttarci gli aggettivi”, le cose di troppo, ricordando loro di “affidarsi al momento, senza copioni nè discorsi artefatti e preimpostati”.
Una serie di consueti appuntamenti con la coincidenza, anch’essa coincinsa con la bravura di una giovane promessa del giornalismo tutto italiano che negli anni ’60, per otto lunghe e travagliate primavere, divenne inviato speciale in Africa. E alla domanda “Qual è stato il ricordo giornalistico più imponente della sua carriera?” Emilio Fede con tutti i viaggi di Moro che ha seguito, ritratto in foto anche nella sua ultima fatica “Se tornassi ad Arcore”,  con la valigetta a mano tenuta sempre dietro la schiena, la bandiera di Nassirya a lui dedicata con la scritta “Emilio Fede ne avrà cura”, sa rispondermi rapidamente: la visita a Papa Wojtyla. Il suo sguardo si sposta sulla foto che li ritrae insieme, ai tempi in cui rappresentava il volto delle cronache di guerra, in particolare quella del Golfo, da lui per primo annunciata il 17 gennaio del ‘91. Però i suoi orgogli non sono terminati e mentre giro il terzo foglio del blocco, Fede mi chiede di attenderlo un secondo. Pochi istanti dopo, ritorna in salotto con una sciarpa bianca, immacolata, tanto che i raggi del sole ne facevano ammirare la tela lavorata. Si trattava di un dono prezioso: il Dalai Lama l’aveva consegnata a Emilio Fede in segno di amicizia. Amicizie riportate nel libro che un paio di mesi fa è uscito col titolo “Se tornassi ad Arcore”(Marsilio Editori) e che è stato preso d’assalto in moltissime librerie. “Le cose sono due: o hanno buttato tutte le copie oppure le hanno davvero vendute”, scherza l’autore che nelle sue 86 pagine racconta le avventure con Montale, Calvino e altri colossi della storia italiana.

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Con tutti questi oracoli e una carriera, basata molto sulla sua abile intuizione, come trascorre le giornate? “Devo dire che il mio tempo lo dedico anche alle Onlus ma mi rendo conto che oggigiorno è venuta a mancare una cosa che prima era di primaria importanza: la solidarietà. Ricordo ancora, quando ero alla conduzione del TG4, che mi chiamò il comandante della Polizia di Bisceglie per comunicarmi la morte di una donna. Io non conoscendola ho chiesto come mai di questa segnalazione, al che mi disse che la defunta aveva lasciato una lettera in cui venivo citato come una persona che nell’arco della sua vita l’è stato di grande aiuto, nonostante fosse dallo schermo, e che mi rendeva il benefattore di due case e qualche centinaio di euro. Ecco, quell’importo lo girai interamente a un’associazione del suo paese che ne aveva bisogno”. Emilio Fede guarda al sociale e lo fa guardando anche ai giovani, come quello che durante l’intervista lo ha contattato al cellulare per alcuni spunti sulla maturità. “Sempre più allo sbando e con le armi della tecnologia in mano, i giovani delle nuove generazioni vanno condotti all’educazione e guariti dal virus della violenza e dell’invidia. Questo problema l’ho sottoposto anche a Renzi”. Per concludere, Fede quando pensa alle “scarpe da appendere al chiodo”, enfatizza dicendo che ogni mattina controlla se sui necrologi c’è il suo nome, dopodichè se non risulta, va in bagno e si fa la barba. “Mi sento di aver fatto tutto e non ho rimpianti, ma per precauzione tengo il telefono spento prima che possa arrivarmi quella chiamata”, ironizza il Direttore che ride alla battuta “Dunque se non dovesse rispondere alla mia, so che è occupato allo specchio”.

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